Di Daniela Giuffrida
Caro Santo,
sono trascorsi già cinque anni da quando sei andato via ma ancora oggi mi capita di pensare a te con quel pizzico di antico candore che una volta era mio, con quella sottile ironia che contraddistingueva il nostro chiacchierare sulla nostra terra: il mio ascoltare i tuoi racconti di vecchie avventure e il tuo narrarmeli come fossero eventi da te stesso vissuti.
Non so sia un bene ciò che la morte compie su ognuno di noi quando arriva la nostra ora. Improvvisamente come in un perfetto restyling ogni ruga svanisce, ogni macchia scompare, la tua anima viene lavata a secco così profondamente da diventare candida e pura e poi viene stirata da non vedersi neanche la più piccola piegolina e tu sei perfetto: solo pulizia, candore e “buon animo” resterà di te, nei ricordi di chi è entrato in contatto o in collisione con te. E forse è giusto così.
“A morti pulizia tutti cosi”, la morte ripulisce tutto quanto, diceva mio nonno ed io gli credevo perché davvero questo accadeva: ogni volta che qualcuno moriva, dimentichi di tutto ciò che nella sua vita era stato, tutti stavano lì a piangerlo come fosse un angelo di cui il padreterno avesse assolutamente bisogno in paradiso: nessuno era migliore di lui. Ricordo bene questi improvvisi cambiamenti in chi piangeva il “morto di turno”, ma non riuscivo a capire perché questo avvenisse.
Poi la vita ti salta addosso e cerca di domarti ad ogni costo e tu, come un cavallo pazzo, non accetti alcun giogo e a niente servono le frustate: tu resti tu, una che non ha mai accettato l’ipocrisia del “dovuto ad ogni costo” una che ha preferito ammalarsi piuttosto che cedere di un millimetro sulle sue idee.
Le ultime parole che tu mi sbattesti in faccia prima dei lunghi silenzi seguiti ai grandi “cortili” – ormai anni fa – furono: “Si, sei una rompicoglioni da tenere a distanza, SEI TROPPO IDEALISTA!” Me lo sputasti in faccia come fosse la più grande delle colpe possibili. Io rimasi a guardarti senza riuscire a dire una sola parola, mentre lacrime di fuoco scivolavano sul mio viso e tu chiedevi sbalordito a tua moglie: “ma chi avi, picchì fa accussì?”…ma che ha da piangere, perchè fa così e lei ti rispondeva, guardandomi stupita: “bbboh, chi sacciu!.
Il perchè di quelle lacrime non lo capisti quella sera e non lo avresti capito neanche nei mesi successivi: eri stato tu ad insegnarmi la fierezza di essere la “Siciliana” che ero, a battermi per quelli che fino a quel momento erano i “nostri” ideali e che da quella sera diventavano solo “miei”: come avrei potuto non piangere? Poi sono arrivati i tuoi silenzi, pesanti come macigni e i chiacchiericci alle mie spalle, le accuse e gli insulti gratuiti, che segnarono la fine di ciò che non era stato per altri, che per me.
Oggi, dopo tanto tempo da quei fatti, oggi che sei nel “mondo della verità” dei miei avi, oggi che non ci sei più, sono certa che sarai contento nel vedere “ca mancu a to’ morti ci potti”, neanche la tua morte mi ha cambiata, neanche il tuo non esserci più ha sanato la mia delusione e la mia rabbia per tutto ciò che è successo.
Ma del resto, lo vedi, io sono rimasta la “rompicoglioni” di un tempo, quella troppo idealista che tu un tempo dicevi di ammirare tanto, quella a cui la vita ha insegnato ad essere quella che è, quella che piuttosto che piegarsi, si farebbe “sparare”. Da me non potevi che aspettarti la mia mancanza di ipocrisia nel non essermi uniformata alla folta schiera dei “quanto era buono”: il mio silenzio è stato il mio rispetto per ciò che sei stato ed hai rappresentato per me.
Ciao vecchio amico mio, sarà un piacere discutere e litigare ancora con te, la prossima volta che ci incontreremo.
(*foto di Igor Cavallari)