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Immagine del redattoreDaniela Giuffrida

PALERMO DI UNA VOLTA

Aggiornamento: 19 giu

Di Beppe Miceli

“CURNUUUTIII… CURNUTI !!!”

Questo era il benvenuto che ci davano i piccoli bambini dei primi insediamenti alle porte di Palermo, gesticolando con le mani ad indicare l’inconfondibile messaggio dell’indice e del mignolo. Un gesto d’accoglienza che cominciava da Bagheria per proseguire a Ficarazzi, Villabate, Brancaccio.

Poi finalmente, dopo un giorno ed una notte di viaggio, tra un assordante sferragliare di scambi, appariva la Stazione Centrale dove con grandissima lentezza ci saremmo fermati. Già, insopportabile lentezza quasi a farci smaniare fino all’ultimo respiro per quella lunga dipartita. Poi gli abbracci con i nonni e le zie che piangevano di gioia gridando da lontano “cà sunnu!”

Il nonno chiamava il facchino che avrebbe trasportato sul suo robusto e lungo carretto di legno verniciato di grigio una dozzina fra colli e valigie. Questi bagagli avrebbero garantito la permanenza per tutto il periodo estivo nella grande casa dei nonni a Palermo.

Già perché i miei genitori erano insegnanti e la scuola a quei tempi riapriva ad ottobre. Un’operazione quella dello scarico delle valigie che seguivamo con cento occhi perché la confusione regnante sul marciapiede di un treno che proveniva dal nord, ai primi di luglio, era inimmaginabile. 

Percorrevamo un lunghissimo tragitto lungo la banchina affiancando le carrozze che vomitavano dai finestrini ogni genere di bagagli, a volte anche quelle stesse persone che non volevano perdere tempo a fare la coda ingolfati nel corridoio delle vetture.

Per ultimo il violento stupore nello sfilare accanto a quella imponente locomotiva a vapore, talmente lunga che mi sembrava non finisse mai, con le ruote più alte di papà, ancora tutta sbuffante nel tentativo di riprendere fiato.

All’esterno della Stazione ci si affacciava di fronte ad una folla di carrozzelle, tutte nere. Di un lutto mai capito ma sempre stato.

Erano trainate da un cavallo che attendeva annoiato i passeggeri dietro ai suoi paraocchi, da sempre compagni di vita. Il percorso sarebbe stato lungo in quanto era via Enrico Albanese quella da raggiungere.

E durante il tragitto, mentre loro “si cuntavano i fatti“ e mentre il cavallo sollevava la coda facendo i suoi giganteschi bisogni senza alcun pudore, mi domandavo come mai i bambini palermitani, di certo miei coetanei, ce l’avessero con i passeggeri del treno. Lo facevano mentre il treno viaggiava lento tanto che ci si poteva guardare nel profondo degli occhi, attraversando quel groviglio di case. Abitazioni in tufo che definire modeste sarebbe stata una gratificazione. Molte recavano ancora, seppur scolorite, le gigantesche scritte fasciste di cui non capivo il significato.

Il convoglio sfilava accanto a gruppetti di bambini che ci insultavano.

“curnuti… curnuti…” stando immobili con le mani sui fianchi proprio accanto ai binari che rasentavano le abitazioni. Altri affacciati imperiosamente a piccole finestre che squarciavano la superficie di quelle pareti spalmate di nero catrame.

Mi domandavo perché, perché ci avevano insultato?

Il senno di poi mi fece comprendere che per loro noi rappresentavamo i traditori. Coloro che avevano abbandonato la propria terra per il riscatto dalla povertà e dall’ignoranza. Quegli stessi individui che poi vi facevano ritorno per sfruttarne clima, mare, cibi e bellezze nel periodo estivo.

E forse non avevano tutti i torti a sputarci offese.

NOTA

I miei genitori, palermitana mia madre e trapanese mio padre, entrambi freschissimi di laurea in lettere avevano cercato le cattedre per l’insegnamento a Palermo o nel circondario, ma i pesanti e continui bombardamenti americani avevano raso al suolo scuole e abitazioni: una vera catastrofe mi diceva mia madre.

Eppure gli americani vennero accolti a braccia aperte quando sfilarono per le vie cittadine In occasione della… “liberazione” di Palermo dai tedeschi.

La diffusa povertà che gravava sulla città, nell’immediato dopoguerra, allontanava i ragazzi delle scuole: questi dovevano lavorare per guadagnarsi il cibo, fattore che probabilmente influì negativamente sulla volontà di ricostruire alla svelta il sistema scolastico palermitano. Fu per questo motivo che mio padre, al ritorno dai tre anni di prigionia in un campo di concentramento americano a Casablanca, rifiutò l’aiuto importante che mio nonno gli avrebbe potuto garantire a Palermo: voleva dare un senso compiuto alla sua laurea e alla sua voglia di indipendenza. Si sposò subito, nel 46 e accettò l’unica cattedra disponibile. a Spoleto in Umbria. Lì venni al mondo nel 1950.

Questa “storia” dell’emigrazione è una specie di senso di colpa che mi porto appresso da oltre settanta anni.

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